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La storia con cui si apre Big Data è quella del servizio di Google per studiare l’emergere delle epidemie stagionali di influenza a partire dalle ricerche compiute su internet dagli utenti del suo motore: Google Flu Trends (si chiama Trend influenzali, nella versione italiana).

 

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Se ne parlò in tutto il mondo, allora, anche semplificandolo un poco: non si tratta solo di un sistema per capire immediatamente quando le persone cercano termini relativi all’influenza, ma anche di associare ai periodi in cui i sistemi tradizionali avevano dimostrato l’emergere di stagioni influenzali le ricerche fatte dagli utenti in quei periodi. E capire quali tendenze ripetute potessero diventare un indicatore per capire in tempi rapidissimi – il giorno stesso, invece delle settimane necessarie tradizionalmente – l’arrivo delle influenze. Quello studio, descritto nel 2009 in un articolo sulla rivista Nature, è diventato il modello più illuminante di un uso rivoluzionario della enorme quantità di dati prodotti e resi accessibili dalle innovazioni digitali di questi decenni. Big Data è un libro appena uscito negli Stati Uniti, scritto da uno studioso austriaco di internet, imprenditore digitale e professore a Oxford e Harvard, Viktor Mayer-Schönberger, e dal giornalista Kenneth Neil Cukier, il responsabile dell’informazione basata sull’uso di dati al settimanale inglese Economist. La loro definizione dell’uso dei Big Data è: «Cose che si possono fare su una grande scala e che non potrebbero farsi in piccola, per estrarre nuove informazioni o creare nuove forme di valore, in modi che cambiano i mercati, le organizzazioni, le relazioni tra cittadini e Governi, e ancora di più».

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