Due giorni. Quarantott’ore. È il tempo sufficiente al mondo digitalizzato e iperconnesso nel quale viviamo, per produrre una quantità di informazioni pari a quella creata in millenni di storia, dall’alba della civiltà fino ai primi anni Duemila.
Ogni oggetto e ogni gesto della nostra vita sono potenzialmente in grado di fornire dati che vengono registrati, elaborati e trasmessi da miliardi di microchip. C’è una parte visibile e tangibile di questi dati, con la quale ci confrontiamo quotidianamente per scandire il nostro tempo, le relazioni sociali, il lavoro, le necessità. È solo la punta dell’iceberg. Tutto intorno a noi, senza che ce ne accorgiamo, una moltitudine di dati, diversi tra loro per fonte e tipologia, alimenta un’enorme nuvola le cui dimensioni sfuggono anche ai più potenti server. Ma negli ultimi anni, grazie alla capacità tecnologica di metterli in relazione tra loro e decodificarli su larga scala, si è cominciata a intuire – e solo in parte a sfruttare – la potenzialità di questa massa di dati messa a fattore comune. E’ ciò che in gergo viene definito “big data”, termine che in inglese si declina al singolare, proprio a contraddistinguere l’unitarietà dell’insieme.